mercoledì 8 agosto 2012

I TANTI PERCHÉ' DI UNA CRISI. DAGLI ANNI 70' AGLI ANNI 90'

Care amiche e cari amici,

un buon caffè è quello che ci vuole, in un ambiente profumato di rose, per capire i perchè di una crisi che ha coinvolto una Italia che, sostanzialmente, a livello di risparmio privato, è sempre stata una «formichina». 
La nostra, infatti, è una crisi innescata non dal debito privato, come è accaduto nella Islanda, ma dalla combinazione letale tra deficit (debito pubblico) che cresce e PIL che decresce. Infatti, dopo il "Decreto salva Italia" di Monti, che affrontava il problema del contenimento del debito pubblico, il "Decreto sullo Sviluppo", approvato di recente, pone l'accento sui rimedi da attuare per  far aumentare il PIL e sconfiggere, quindi, la forte recessione. E' di oggi la notizia che il PIL si attesta al -2,5% a base annua.

Nel post «Non era colpa mia» ci eravamo lasciati con la impennata dello Spread, nella estate 2011, a cui era seguìto tutto quello che conosciamo: dalle misure del governo Berlusconi, alle sue dimissioni e alla nascita del governo dei tecnici di Monti. Ai tecnici l'Europa chiese subito di adottare non soltanto misure immediate per bloccare la emorragia, ma anche di affrontare altri problemi antichi che, si riteneva, la politica non fosse in grado, nella situazione in cui si era trovata nella legislazione precedente, cioè col governo Berlusconi, di risolvere. 
Per iniziare il nostro ragionamento, chiediamoci: «Come mai avevamo e abbiamo ancora  problemi, visto che, negli anni 50' e 60' della guerra fredda, eravamo noi «la Cina del mondo», cioè quella che produceva a basso costo ed esportava tantissimo, quella che aveva creato quel miracolo economico che aveva sbalordito tutti e che oggi fa ancora parte del G8? L'Italia, infatti, è ancora a pieno titolo, uno degli otto paesi più industrializzati del mondo»
Il sorgere e l'aggravarsi dei nostri problemi attraversa due fasi temporali: la prima che va dagli anni 70' fino agli anni 90', la seconda che va dagli anni 90' ad oggi.


DAGLI ANNI 70' FINO AGLI ANNI 90'.
Infatti i problemi dell'Italia hanno radici lontane nel tempo, e, volendo riassumere le principali ragioni che stanno alla base della bassa crescita e i problemi che poi l'italia si è trovata ad affrontare, nella crisi, possiamo cominciare ad evidenziare i primi tre punti

1) Il primo punto riguarda la politica antinflazionistica che l'Italia ha eseguito fin dai lontani anni 80. In quell'epoca, l'italia veniva dagli anni settanta di altissima inflazione (crisi petrolifera) e c'era, quindi, il problema di volere arrivare ad un regime di tassi di cambio stabili con il resto delle monete dell'europa. Questo tentativo di difendere il cambio fisso, specialmente con la Germania (sempre la stessa) e di conseguire, quindi, una politica di disinflazione, ha comportato che il servizio del debito, quello che noi, cioè, dobbiamo pagare in termini di interesse sul debito pubblico, diventasse molto alto. Negli anni 83-87 ("era" Craxi), il debito pubblico passò da 234 a 522 miliardi di euro (dati valuta 2006) e il rapporto fra debito pubblico e PIL passò dal 70% al 93%.


2) Il secondo punto, nonché fattore di crisi e di ritardo della crescita, va ricercato, sempre  negli anni 80, in italia così come in Europa, quando si sono cominciati a mettere in atto gradualmente misure di deregolamentazione del mercato del lavoro, rendendolo particolarmente flessibile . 



Questa deregolamentazione ha prodotto due effetti:

2.1) il primo effetto, quello, cioè, di liberalizzare l'entrata e l'uscita dal mondo del lavoro, ha reso più facile solo i licenziamenti, ma non le assunzioni, come, invece, si diceva; da allora, infatti, divenne più facile essere licenziati che essere assunti.

2.2) il secondo effetto è quello sui salari; i giovani, da allora, non solo entravano nel mercato del lavoro con contratti atipici, ma anche con salari sempre più bassi
E, come se non bastasse, tutto ciò ha portato anche ad un altro aspetto più deleterio di questo, da cui, appunto, prendiamo gli elementi dei veri motivi che hanno determinato la nostra scarsa crescita, da quegli anni fino ad oggi. 
Le imprese, ricorrendo sempre più al lavoro a basso costo, rappresentato dai giovani (laureati o no) che volevano lavorare, a qualunque condizione, hanno privilegiato,   tecniche ad alta intensità di lavoro e hanno fatto sempre meno ricorso a investimenti su prodotti nuovi e innovativi, e soprattutto al minor sviluppo di alte tecnologie nella produzione.
Questa scelta della «via bassa» sul lavoro, si è tradotta, in Italia, in un minore tasso di crescita della produttività e della qualità del prodotto. 
Mentre, al contrario delle nostre, moltissime industrie europee, asiatiche e americane, investendo capitali e assumendo personale sempre più specializzato, furono in grado di usare tecnologie produttive all'avanguardia, quali, ad esempio, la robotizzazione. Questo fece sì che esse conseguissero sia una produzione di qualità, sia una produzione di maggior quantità, per cui immettevano sul mercato prodotti di altissima qualità e a minor prezzo rispetto alle industrie italiane poco innovative. Le industrie italiane persero, per questo fatto, importanti pezzi del mercato perché non erano più concorrenziali.


La filosofia industriale di puntare, inoltre, su manufatti, prodotti da forza di lavoro non specializzata ma a basso costo,  fece sì che le grandi industrie Italiane non investissero in nuovi prodotti innovativi, come quelli dei settori della energia rinnovabile, della chimica avanzata, della informatica, della elettronica avanzata etc. Il tragico è, che famiglie operaie , addossandosi sacrifici enormi, facevano pressione sui figli affinché si laureassero, facessero dei master o facessero dottorati di ricerca, per poi vederli lavorare, da laureati, (se tutto andava bene), nella loro stessa mansione. 
Da allora perciò cominciò la fuga dei cervelli all'estero!
Ma come è stato possibile che si arrivasse a tanta miopia
Hanno contribuito, in effetti, sia le scarse capacità del management industriale, sia la mancanza di concorrenza, in quanto le nostre grandi industrie hanno operato, per lunghissimo tempo, in un mercato "protetto"  e, per di più, con assetti societari monopolistici, di proprietà sempre delle stesse famiglie di imprenditori. 
Nella industria privata, infatti, le politiche di fusione hanno rappresentato la principale pecca della grande impresa, la quale era, infatti, organizzata sotto forma di gruppi gerarchici al cui vertice veniva collocata una società di Holding, le cui partecipazioni erano, però, controllate sia da famiglie sia da gruppi o società amiche. Esempi di queste concentrazioni erano i grandi oligopoli nelle mani di poche famiglie (Agnelli, Falck, Piaggio, Pirelli). Questo ha determinato un notevole grado di interdipendenza che induceva ad un comportamento collusivo. La scarsità di concorrenza implicò, per l'Italia, quindi, scarso sviluppo. 
Ad esempio, anche quando ci fu l'espansione dei mercati e della grande produzione di beni di consumo, dopo la caduta del muro di Berlino, l'Industria Privata Italiana non colse l'occasione, perché soddisfatta dallo sfruttamento delle posizioni di monopolio, in conseguenza anche di atteggiamenti spesso poco onesti da parte dei gestori delle imprese. Questo produsse disinteresse, da parte dei proprietari, ad investire in innovazione e nel miglioramento dell'efficienza, paghi, ormai, di essere in un contesto apparentemente privilegiato, caratterizzato dall'assenza o dalla scarsità di concorrenza. Inoltre lo Stato, da loro, veniva usato, grazie a connivenze politiche, come una specie di assicurazione contro le "perdite", che, infatti,  quando c'erano, venivano "socializzate" e scaricate sul contribuente, al contrario dei profitti che invece venivano incamerati e usati nel campo della finanza speculativa oppure venivano imboscati in Svizzera. Questo, a lungo andare, ha depauperato la nostra Nazione, sia in termini di scarsi capitali nella finanza produttiva, sia in termini di forza lavoro specializzata o laureata che, o era costretta ad emigrare o era sottoccupata.
Passando ora ad esaminare la Industria Pubblica, la situazione non è migliore, perché, essendo amministrata da una complessa burocrazia, essa, dopo la parentesi Mattei, conseguì, come risultati, solo bilanci in rosso, cominciando ad indebitarsi e a ricorrere massicciamente al denaro pubblico. 
L'idea di innovare non era, comunque, compresa nei suoi piani di sviluppo o di salvataggio. 
Negli anni novanta, dopo una fallita ristrutturazione, col divieto da parte dell'Europa all'uso di sovvenzioni statali, la nostra industria pubblica, parte fu privatizzata, e parte messa in liquidazione. 
In conclusione, l’Italia, per tali scelte scellerate,  è rimasta, quindi, sempre ancorata ai settori tradizionali di base, con produzioni qualitativamente e quantitativamente scarse, non essendoci stati, appunto, investimenti nei settori a più alto contenuto tecnologico e di ricerca e di sviluppo. Perciò, nel momento in cui, il "fattore" (cioè, la relativa economicità della forza-lavoro italiana), che aveva fatto crescere la nostra imprenditoria negli anni del boom, aveva perso, per la concorrenza di nazioni emergenti, la sua potenzialità,  e, nel momento in cui non c'erano stati investimenti compensativi nei settori innovativi che le avrebbero conferito nuovi durevoli benefici, cominciarono a diminuire drasticamente le nostre esportazioni, con conseguente disavanzo della bilancia dei pagamenti con l'estero. Importavamo più di quanto esportavamo e i nostri prodotti erano sempre più cari. Il nostro PIL cominciò a rallentare, al contrario del debito pubblico che saliva per garantire servizi sociali per altro scadenti.

Tale politica industriale, basata sia su tecnologie sia su prodotti innovativi, invece, fu fatta dalla Germania e da tutti i Paesi del Nord Europa, permettendo loro di poter competere sul mercato mondiale, non su bassi costi del lavoro ma sull'alta qualità del lavoro stesso. 
Questo è, quindi, l'attuale vero GAP che ci divide dalla Germania e dai "falchi" del Nord europa, e non tanto lo Spread, che ne è una conseguenza derivante anche da altri fattori.
L'economia  italiana e il suo PIL, per lungo tempo, è stata salvata dalla piccola e media impresa (PMI), molto numerosa nel nostro paese, che ha operato, invece, sempre nei settori innovativi e con tecnologie di produzione anche esse innovative, e ha retto fino a che non vi è stata la"globalizzazione del mercato", come vedremo in seguito.

3) il terzo punto è un pò più particolare e riguarda l'aspetto dello Stato Sociale Italiano
L'Italia è arrivata tardi, come molti paesi mediterranei, nel porsi il problema dello «Stato Sociale»; il che vuol dire: riforme della sanità, delle pensioni, della previdenza e, soprattutto, dei servizi sociali. Inoltre, quando ci è arrivata, ha creato uno «Stato Sociale» fortemente sperequato che garantiva esclusivamente le famiglie che avevano un rappresentante nel mercato del lavoro, lasciando fuori di esso i giovani e le donne.
La incapacità di sviluppare uno «Stato Sociale Avanzato», come hanno fatto i Paesi dell'Europa del Nord, si è tradotto, anche esso, in un ritardo nella crescita, perchè, nella misura in cui la popolazione italiana invecchiava, nella misura in cui le famiglie diventavano sempre più mononucleari e non più patriarcali o plurireddito, cioè, con un figlio, massimo due, sempre di più la donna aveva la necessità di entrare nel mercato del lavoro, per avere due redditi in famiglia, onde poter sbarcare al meglio il lunario. 
La carenza di servizi è sempre stata, perciò, un problema molto serio per poter continuare a far sviluppare il reddito. Questa realtà pone un problema di insostenibilità stessa del modello di sviluppo, nel senso che, se l'invecchiamento della popolazione richiede un aumento alla partecipazione al mercato del lavoro delle donne, esse, però, trovano un ostacolo dal fatto che non possono stare simultaneamente nel mercato del lavoro e anche fornire quei servizi che lo Stato non dà alla famiglia, come asili nido, assistenza domiciliare agli anziani, etc., a costi contenuti. Questo ha fatto sì che moltissime famiglie siano rimaste monoreddito, a scapito della produttività e del PIL.

Siamo con ciò arrivati all' era Berlusconi, e ai danni che la sua politica ha prodotto per quasi venti anni. Ma ne parleremo nel prossimo Post.

Un abbraccio.

Riproduzione anche parziale concessa previo citazione della fonte 

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